A cura di Adriano Giannola, Presidente SVIMEZ
Poche riflessioni sul futuro, visto dal Sud malato di oggi ma confortate dall’ ottimismo meridiano di prospettiva con il quale dovremmo provare a ragionare, forti della cultura mediterranea nella quale siamo immersi e consapevoli dell’ impegnativa missione che essa configura.
Il dramma della pandemia ha rappresentato per il Sistema Italia un fatale appuntamento con la verità. Un risveglio involontario auspicabilmente salutare, certamente traumatico, imposto dall’ Unione Europea che sollecita a porre mano al intervenire sull’ insostenibile nostro dualismo economico e sociale. Il suo progredire dal 2001 e ancor più esplicitamente dal 2009, segnala ed alimenta la profonda crisi dell’ economia e, sul territorio, la progressiva sospensione di fondamentali diritti di cittadinanza.
I quasi 200 mld€ allocati dalla UE per “salvare l’ Italia” non sono un premio ma un eloquente e concreto richiamo alla realtà.
Il dramma della pandemia, oltre ad aprire gli occhi alla UE sull’ insostenibile percorso che ha fatto dell’ Italia il “grande malato d’ Europa”, rende ancor più chiaro al Paese che il futuro del Sud dipende dal e condiziona il futuro del Paese. Non possiamo parlare del Mezzogiorno solo come una persistenza fastidiosa e, ancor meno, individuarlo come il problema che condiziona l’ Italia. Così facendo si nasconde -più o meno consapevolmente- che la nostra è una crisi strutturale, maturata progressivamente, alla quale il sistema assiste inerte almeno da venti anni nei quali procede la disarticolazione di un modello ancor oggi mitizzato.
L’ entelechia pandemica oltre a risvegliare il senso di un destino comune induce la UE, per legittima difesa, a chiedere di svegliarci da questo sonno.
Basta confrontare il Nord -la sedicente locomotiva- con il resto d’Europa per misurare quanto sia grave la deriva. Proprio per affrontare con realismo questa crisi sistemica, la chiave di lettura la fornisce il Sud solo che si rifugga dalle stereotipate narrazioni di chi non vuol vedere i fatti e trarne le conseguenze. Emergerebbe finalmente che il Sud, da palla al piede che non fa correre il più forte, è oggi la leva da azionare, indispensabile per sfuggire a questo Medio Evo contemporaneo e puntare a un possibile Rinascimento nazionale; un ingrediente indispensabile per dare fiato e futuro all’ Italia e all’ intera UE.
Il percorso Italiano nell’ era della globalizzazione sconta lo smarrimento progressivo di funzione e il rifiuto se non la rinuncia ad accettare la sfida che proprio la globalizzazione offre, anzi impone di cogliere e che, in sintesi, è la capacità del Paese di interpretare a tutto campo la vocazione mediterranea. I nostri dati – se conta qualcosa mettere i numeri dietro ai fatti– dicono che questa ignavia ha un costo enorme e che essa incide più intensamente al Sud. La desertificazione indotta dalla strategia estrattiva (ampiamente documentata dall’ Eurostat e dal Sistema Statistico Nazionale) con la quale le regioni “forti” perseguono una propria illusoria ed autonoma via di uscita dalla crisi, ha condizionato sempre di più la dinamica del sistema. Lo evidenzia il conclamato tsunami demografico che da anni investe il Mezzogiorno.
Se ne vanno i giovani: per primi quelli che ne hanno l’ opportunità grazie a famiglie che possono consentirsi il lusso di impoverirsi.
In passato le rimesse degli emigranti del Sud facevano quadrare la bilancia commerciale del Paese, oggi le rimesse per gli emigrati drenano risorse redistribuendo ricchezza mobiliare e immobiliare dal Sud al Nord (almeno tre miliardi all’ anno oltre al valore del capitale umano formato ed esportato).
Finalmente, in sintonia con l’ ISTAT, la Banca d’Italia oggi -la SVIMEZ dal 2011- prevede che in dodici anni il Mezzogiorno da area più giovane passa ad essere quella più vecchia dell’ Unione Europea e, in altri dodici anni, il Sud, con cinque milioni di abitanti in meno, avrà perso il 40 per cento del suo prodotto con il risultato che il Nord, pur beneficiario sempre più residuale del collasso demografico meridionale, perderebbe il 20 per cento del suo, non per ulteriori crisi ma per effetto di una riduzione di scala che renderà il Sistema Italia più marginale in una UE che continua sia pur lentamente a crescere.
Questa discesa nel maelstrom, chiaramente evidente dal 2007, inizia in realtà nel 1992 con la prima crisi finanziaria del Paese, fronteggiata con la svalutazione competitiva della lira del 40% e la maldestra abrogazione nel 1993 dell’ intervento straodinario per il Mezzogiorno la cui gestione, affidata ad una spending review illegale, oltre a cancellare in pochi anni i grandi banchi meridionali liquidò ogni traccia di intervento non assistenzialistico sul dualismo sociale ed economico.
Da allora il Mezzogiorno, Regione per Regione, viene progressivamente chiuso nella riserva indiana della burocratica e barocca politica di coesione.
Un illustre osservatore, laico ed informato come Fernand Braudel già nel 1983, all’ insorgere della surreale questione settentrionale, da Milano sulle colonne del Corriere della Sera ammoniva:
“…Valorizzare Napoli sarebbe una fortuna per l’ Italia e per
l’ Europa, ma l’ Italia ha paura…questa città troppo diversa: europea prima che italiana… Questo capitale oggi sottoutilizzato, sperprerto fino ai limiti dell’ esaurimento, quale fortuna per tutti noi se, ora, domani, potesse essere mobilitato. Quale fortuna per l’ Europa ma anche e soprattutto per l’Italia” |
Quel preveggente appello va meditato e letto non come una generosa illusione, ma come la lucida indicazione della prospettiva alla quale volgere lo sguardo.
Napoli-il Sud- è il Mediterraneo, il luogo e lo spazio a noi “destinato” e concesso dalla globalizzazione: la logistica dei porti, l’ energia pulita, la rigenerazione urbana, in breve, il terreno sul quale affrontare la sfida per mettere produttivamente a valore la rendita posizionale che ci “spetta” come unico grande Paese dell’ Unione esclusivamente Mediterraneo. Certo, dopo tanti anni di ignavia, ci vuole umiltà, meno provincialismo, più cultura e…. che gli economisti più che al main stream si ispirino alla Storia.
Dovremmo lavorare in particolare ragionando sulla nostra specificità che – nelle differenze- rappresenta il collante del Paese: se confrontiamo l’Italia delle cento città emersa con il Rinascimento con quanto prodotto altrove dalla Rivoluzione industriale, rileviamo la costante rirpoposizione di due metodi, due mondi, due modi di produzione. Aspetti che sollecitano oggi una riflessione critica sulla nostra passività adattiva e sollecitano un approccio che è limitativo etichettare come pura valorizzazione di una preziosa tradizione da preservare.
Dire che “l’ Italia è cultura”, è qualcosa di molto concreto e complesso. Quella cultura si è materializzata in un imponente stock di capitale -fisico ed immateriale- frutto di una accumulazione generata da uno specifico e del tutto originale modo di produzione; un processo determinato ispirato da una logica orientata a finalità spcifiche plasmate -specie al Sud- sulle fondamenta di quell’ “economia civile” che si confronta, con la rivoluzione smithiana della “mano invisibile” resa forza motrice della rivoluzione industriale e che plasma il mercato, l’ impresa c i teoremi dell’ “economia politica”.
Oggi che da più di due secoli siamo immersi nel “mercato” che passa sempre più al fondamentalismo della globalizzazione, la svolta radicale imposta dalla pandemia impegna a riflettere su quel patrimonio, quasi inerte, accumulato da abilitare, salvaguardare, mettere a frutto. Un patrimonio -materiale e non- che si manifesta e riemerge al contempo come riorsa permanente sostenibile perchè produttiva, da recuperare secondo i canoni di quella che oggi, nel gergo, definiamo “economia circolare”. L’ approccio circolare non è un’ astrazione intellettuale bensì ha valenza generativa sotto molteplici aspetti mobilitando in forme innovative le risorse indispensabili non solo per mantenere qualità e quantità di questo capitale specifico, unico ed insostituibile ma al contempo per abilitarlo a fonte potenziale di una pervasiva rendita posizionale, di un surplus da reinvestire.
E’ forte l’ analogia con i caratteri delle energie rinnovabili nel processo circolare che caratterizza la transizione alla sostenibilità ambientale.
Allo scopo aiuta indubbiamente governare, non subire la rivoluzione digitale la cui pervasività -a condizione di neutralizzare il rischio incombente di assoluta dispersione- è uno straordinario veicolo operativo di diffusione, utile a valorizzare la specificità di questo patrimonio favorendone valorizzazione e fruizione.
Una peculiarità da “economia civile” che usa il “mercato”.
Cultura ed economia, dunque, dovrebbero interagire disegnando scenari e percorsi, interpreti del Mediterraneo luogo identitario per eccellenza.
In questo “quasi oceano” pari all’ 1 per cento della superficie marina, piazza privilegiata del traffico mondiale, l’ Italia ne è al centro e protagonista dall’ epoca delle repubbliche marinare. Solo la nostra incredibile insipienza può dae conto dell’ ostinazione che ha consentito di ridurlo -per noi- a mare di transito verso i porti del Nord Europa. Il primo effetto della sveglia dell’ UE propone l’ immediata prospettiva di un Sud centrale, insostituibile per promuovere un cambio di rotta strategico in assenza della quale l’Italia non resiste e, quindi, non esiste nell’ economia e nella società globale.
Un cambio di prospettiva essenziale per sciogliere nodi criciali che oggi paralizzano il Sud e con lui il Sistma.
Faccio un esempio significativo. Quale nesso fino ad oggi ha legato secondo l’ Itaòia e l’ Europa Napoli a Bari se non le problematiche di due critiche realtà metropolitane affidate alle cure regionali della politica di coesione?
L’ ottica progettuale braudeliana coglierebbe invece il senso profondo di una visione prospettica del tutto trascurata che affida -e recupera- alla connessione tra Napoli e Bari una ben precisa funzione sistemica dei nostri tempi. Connettere le due aree metropolitane unisce per la prima volta nella storia moderna Tirreno e Adriatico, realizza un corridoio intermodale mediterraneo Est-Ovest che apre a Francia, Spagna, ecc. la via diretta ai Balcani, al Medio Oriente, alla Turchia. Rende indispensabile realizzare le connessioni con Taranto e Gioia Tauro fino a realizzare un quadrilatero logistico nel cuore del Mediterraneo, al quale agganciare la Sicilia da Augusta che accoglie il traffico da Suez così da collegare anche via terra (“il Ponte”) quel Southern Range, la gateway, da Sud che manca per entrare in Europa. Un ribilanciamento, quindi, rispetto al Northern Range assolutamente indispensabile; essenziale per la sostenibilità ecologica a contrasto del mutamento climatico.
Non solo, connettere i due mari, raccorda al “nuovo” corridoio le aree interne di Campania e Puglia così come l’ integrazione Taranto Gioia Tauro apre a quelle calabresi e lucane e Augusta-Messina-Reggio Calabria a quelle sicule. Riportiamo a vivere parti integranti di quel patrimonio -materiale e non- dando senso alla “visione” che non è riuscita a marciare in venti anni di inerzia per carenza, anzitutto, di una prospettiva culturale.
L’ asfittico provincilismo regionale, l’ inconsistenza strategica di un governo nazionale che si affida alla regia al “vento del Nord” sono riusciti a ritagliare per il Paese il diligente ruolo di conto-terzisti di lusso nella catena del valore mitteleuropea. I consuntivi quanto a tenuta e crescita dell’ economia (Nord per primo) e quelli politico-culturali, sono le disarmanti evidenze degli ultimi quindici anni e delle quali non è politicamente corretto parlare.
Oggi al posto del mancato quadrilatero logistico braudeliano, abbiamo un quadro desolante: il Mezzogiorno continentale con oltre dodici milioni di cittadini, (poco meno di 20 milioni se si realizza “il ponte”) serbatoio esplosivo dei disoccupati, immerso nel mare dell’ illegaità diffusa del lavoro nero quando non criminale. Esso alimenta il circolo vizioso dell’ emigrazione selettiva, estrattiva di risorse e prefigura la sconparsa (per eutanasia) della Questione Meridionale. Un territorio che supera il 40% di quello nazionale, senza capacità un proprio ruolo politico-sociale è oggi indispensabile per salvare il “grande malato d’ Europa”. Pur dotato di aeroporti internazionali, interporti, istituzioni, Centri di ricerca, Università, eccellenze culturali, langue con le sue città-capitali assetate di rigenerazione urbana, incapace di attendere alla valorizzazione del suo secolare patrimonio cuturale materiale ed immateriale.
Senza una scelta decisa esplicita e fortemente motivata, l’ attesa di un improbabile 2026, rischia di fare il paio ma con conseguenze ben più gravi per il Paese con la rinuncia del 2011 che, eliminando il “ponte”, cancellò il corridoio Berlino-Palermo.
Inerzie e rinunce contraddicono palesemente il fatto che l’ Italia è cultura.
Milano, il Lombardo-Veneto, via, via più lontani attratti dalla Baviera, tentati di farsi Stato, dovrebbero invece alzare lo sguardo, aprirsi al Mediterraneo, il mare del presente e del futuro per avere ruolo nella globalizzazione.
La teoria, il buon senso, l’ istinto dicono che a questo scopo non bastano Genova e Trieste; mancano all’ appello Napoli, Palermo, Taranto, Gioia Tauro, Agusta, Cagliari, Cvitavecchia, Livorno, Savona, Ravenna, Ancona, Ortona e tanti altri: in definitiva manca il Sistema ma, soprattutto, il Sud per accendere il sempre più necessario “secondo motore” del Paese. Un progetto possibile, non un’ utopia.